Opera Theater


Era stata una mattinata intensa per me. Di belle emozioni. Mi ero avvenurata al di fuori del perimetro noto.

Avevo preso dei mezzi pubblici. Mi ero concessa per la prima volta di sentirmi oslese onoraria. Come qualsiasi abitante della città che si rispetti.

Per la prima volta ero riuscita ad avvicinarmi a questo edificio, appena sfiorato l’anno precedente, nel corso della mia prima visita al Munch Museet.

A dire il vero, in quella occasione non avevo nemmeno fatto caso (non so come fosse stato possibile, ma era andata esattamente così) a questo enorme blocco di pietra e cristalli che affonda nel mare, creando un incredibile contrasto con il museo grigio-piombo che è poggiato proprio accanto a lui.

A dieci metri da lì.

La mia innata abilità nella distorsione percettiva – nel senso che sono capace di attraversare cose macroscopiche e gigantesche che ho accanto senza nemmeno notarle – quella volta aveva di nuovo avuto la meglio.

In realtà so anche come è stato possibile: quello dell’anno precedente era stato un momento davvero particolare.

Troppi, troppi stimoli e tutti insieme.

Mi ero spinta a migliaia di chilometri da casa, ero appena arrivata ad Oslo e non avevo ancora creato dentro di me quelle dinamiche di familiarità che mi risultano indispensabili per potermi sentire a mio agio in un posto.

Qualunque esso sia.

Non sono e non sarò mai una di quelle persone che si buttano con entusiasmo nelle cose sconosciute.

Sono un Paguro Bernardo e, prima di infilarmi in una conchiglia incognita, del tutto nuova per me e dunque potenzialmente letale, devo averla esplorata ben bene.

Solo dopo posso infilarmici e godermela.

La sera dell’anno precedente ero ancora in una fase esplorativa un po’ inquieta ed inquietante per i miei gusti: erano le nove di sera, stava per fare buio, pioveva a dirotto ed avevo trascorso le ore precedenti a vagare per il Sentrum, senza riuscire a trovare il Museo Munch.

(lo so, non so usare Google Maps, lo so bene: sarei capace di perdermi anche nel piazzale sotto casa mia, tenendo in mano il mio telefonino, mentre impreco perché non riesco a capire dove mi trovi)

Mi ci è voluto un anno, dunque – un intero anno – per realizzare: primo, che Museo e Teatro convivevano allegramente l’uno accanto all’altro da anni e, secondo, che si trovavano a non più di cento metri dalla stazione centrale.

(accanto alla quale si trovava il mio albergo l’anno precedente)

A non più di un chilometro dall’appartamento in cui vivevo quest’anno.

Una volta compresa questa banale cosa, nel mio mese oslese sarei poi andata a trovare il teatro ed il museo almeno un paio di volte alla settimana.

(ormai Bernardo il Paguro conosceva bene entrambi e si poteva fidare di loro: sarebbero rimasti sempre al loro posto e proprio questo faceva di loro dei luoghi totalmente affidabili)

(ma questa è un’altra storia: compete di più al mio psicanalista)

Mentre aspettavo l’apertura del Museo Munch, già visitato anche l’anno scorso, dunque, ho finalmente notato e mi sono avvicinata per la prima volta a questa strana ed incredibile creatura architettonica.

Renzo Piano l’ha progettata e voluta così. Sembrerebbe che abbia voluto creare una specie di iceberg che si ergesse sulla superficie dell’acqua.

(in effetti, a guardarlo bene, è proprio questo l’effetto che fa: quello di un iceberg spiaggiato in pieno Sentrum)

Il bianco sporco è quello che domina: scaglie di pietra bianco sporco che sembrano andare in ogni direzione. Il suo colore, poi, cambia di continuo, a seconda dell’ora del giorno e delle condizioni meteorologiche che ha intorno. La pietra bianca ed i cristalli creano rifrazioni sempre diverse, sempre affascinanti.

La gente affolla il perimetro di questo edificio a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Estate e inverno.

Ad Oslo le persone amano davvero vivere all’aria aperta e questo è sicuramente un luogo accogliente e molto apprezzato, dal loro punto di vista.

Bambini, adulti e persino strani ciclisti dall’aria ottocentesca salgono e scendono lungo i fianchi del teatro, sostano e siedono sulle terrazze che permettono di ammirare la città vecchia ed i nuovi quartieri.

Era mattina presto in quel momento e, ad un certo punto, si è creata una particolare consonanza di luce e colore: il sole che era sorto da poco, le nuvole del cielo e le pietre hanno iniziato ad interagire.

Vetro e pietra chiara e scabra, in basso. Sole e nuvole, in alto.

Linee diagonali e verticali che si intersecavano, scontri di superfici che erano anche scontri di ghiaccio candido sulla superficie del mare.

Un gabbiano sornione, ormai evidentemente assuefatto a tanta bellezza, osservava tranquillo il passaggio di noi turisti, lasciandosi persino fotografare da vicino senza mostrarsi troppo infastidito.