Thoughts


procedi lentamente: sei alle Svalbard

Ero arrivata lì come turista. Ma lo avevo dimenticato quasi subito. Pochi giorni avevano cambiato il mio sguardo su quei luoghi. Il mio modo di stare lì. Alle Svalbard.

Un posto magnifico, le Svalbard.

Longyearbyen, la zona vicina al porto

A quel punto del mio viaggio – dopo un pacco consistente di attività, escursioni, osservazioni, camminate, anche in solitaria, lungo le strade della città – mi sentivo parte integrante di quel luogo. 

Di quel territorio così particolare.

La Svalbard sono così: un luogo che assorbe. Assorbe la tua energia e te la restituisce. A larghe mani. Decuplicata.

Longyearbyen

Chi arriva lì, in quel luogo scabro, popolato da renne, muschi e licheni, con quei colori intensi, viola, giallo, con il mare di quel colore celeste polvere, gessoso, con quell’acqua che non si smetterebbe mai di guardare, chi arriva lì, dunque, dopo la sua bella galoppata di mille chilometri da Oslo, non riesce più a liberarsi da quello spettacolo. 

Solo dopo un po’ si rende conto davvero di quello che sta accadendo.

È caduto ben bene nella trappola. Ben congegnata da qualcuno, si direbbe.

Luce costante: giorno e notte

Quella natura così spoglia e silenziosa, tagliata di netto con l’accetta, con quella completa assenza di vegetazione, con la luce estiva che ti insegue fin nelle ore che, solo nella tua testa, dovrebbero essere riservate alla notte: tutte queste cose, messe in fila, una dopo l’altra, sono capaci di attirare lo sventurato ed inconsapevole turista nella tela del ragno che lo terrà prigioniero, senza scampo alcuno.

Longyearbyen

Quando ci si rende conto della manovra in atto, è già troppo tardi. La trappola è scattata. Le Svalbard hanno fatto dei nuovi prigionieri. E quei prigionieri siamo noi.

A dire il vero, già da molti anni ero prigioniera della Scandinavia, una terra che ho amato fin dal momento in cui – tanti anni fa – ho poggiato per la prima volta il mio piede a Stoccolma. Questa, dunque, in assoluto, non era una novità per me, ma con le Svalbard è scattata la passione. 

Quella della vita, credo.

Lo capisco ancora di più oggi – a distanza di mesi – mentre mi ritrovo davanti una foto che ho scattato a Longyearbyen e sono colta da una strana forma di nostalgia, mai provata in precedenza per altri luoghi. Non a questo livello.

La Scandinavia ti imprigiona e non puoi più farne a meno. Una prigionia molto intensa da vivere e da provare.

Pensavo a tutto questo, al legame che in me si era creato quasi immediatamente con quei luoghi così remoti da tutto, mentre, a colazione, iniziavo il mio penultimo giorno da quelle parti.

Me ne stavo seduta in silenzio, da sola, al tavolo, guardavo oltre la finestra ed osservavo la montagna dell’escursione del giorno prima, che si allungava proprio davanti a me.

Il sentiero della camminata

Quel sentiero da cui era partita la tremenda galoppata di ventisei chilometri del giorno prima, su una pietraia scivolosa ed impervia.

Era stata dura, ma lì erano scattate delle cose, in me, come in tutti gli altri, credo. Al di là della stanchezza, al di là di ogni altra considerazione possibile.

Ero seduta lì, mentre mandavo giù il mio caffè lungo ed il mio yogurt. 

Pensavo anche che quella terra era anche la terra di Viljar.  Avevo pensato molto spesso a lui, in quei giorni.

Quella era la terra di Simon, Anders, Viljar e Torje, il piccolo gruppo di ragazzi che era partito da lì, per andare ad incontrare altri ragazzi come loro sull’isola di Utøya, vicino Oslo, nel 2011.  Volevano solo divertirsi, stare insieme a dei coetanei in campeggio, a discutere di futuro, di politica, di vita.

A giocare a pallone, spensierati, come fanno tutti gli adolescenti, ad ogni latitudine.

Le cose, invece, nel loro caso, avevano preso una piega molto diversa. Solo i due fratelli, Viljar e Torje, sono riusciti a fare ritorno qui. Mesi dopo. 

Dopo le settimane che avevano tenuto Viljar in sospeso tra la vita e la morte, fermo in una sala di rianimazione, dopo l’intervento alla testa che aveva subito.

Simon e Anders no, non sono tornati: sono stati uccisi da quel nazista durante la sparatoria sull’isola, nel corso di quella caccia all’uomo che, insieme a loro, si è portata via altri sessantasette ragazzi spensierati, in una manciata di ore.

Tutti uccisi, come Simon e Anders, i migliori amici di Viljar, morti in quel modo folle, senza un vero perché.

Durante quei giorni, mentre camminavo in quei luoghi, ho pensato spesso a loro. Al fatto che, di sicuro, erano passati, in qualche momento delle loro vite, sulla strada o sul sentiero che stavo percorrendo. 

Ho pensato a loro passando davanti alla scuola elementare, li ho immaginati bambini, mentre giocavano in palestra, facendosi degli scherzi e ridendo come matti. Li ho immaginati anche mentre guardavo la pista dell’aeroporto di Longyearbyen, prima di partire, pensando al senso di eccitazione che devono aver provato quel giorno, alla partenza per quel viaggio e per quel campeggio che avrebbero cambiato ogni singola cosa delle loro vite.

Anche quella era energia che circolava ancora sull’isola. L’energia di quel dolore immenso e delle tante cose che ci ha costretto a comprendere.

Avevo meditato spesso su queste cose, nei giorni precedenti, mentre camminavo per quei paesaggi silenziosi, che impongono  continuamente una forma di reverenza e di rispetto a chi li sta osservando.

Pensando a quei ragazzi, mi sono resa conto una volta di più del fatto che, a volte, la vita, mentre gioca a dadi con te, decide di barare, nel corso dei lanci, facendoti in questo modo perdere la tua partita.

La sola che ti era stata assegnata. Almeno per quel giro.

Quella mattina, seduta al tavolo della colazione, ho ripensato anche all’immenso coraggio di Viljar, alla sua testardaggine. Ai cinque colpi di fucile da assalto che ha ricevuto – uno dopo l’altro – sul suo corpo, alle tre dita che mancano alla sua mano sinistra, solo perché quel giorno aveva compiuto, senza rifletterci troppo,  quel gesto istintivo di difesa, davanti ad un’arma già pronta a colpirlo.

Quel gesto che ognuno di noi farebbe, in una situazione disperata come quella. Ho pensato anche alla frase che Viljar ha pronunciato in aula, al processo, davanti a Breivik: “Ed io scelgo di vivere”.

Una frase che, guardando i luoghi che avevo intorno a me, ho fatto immediatamente mia.

“Ed io scelgo di vivere”

Le Svalbard sono vita.

(dedicato a Simon e ad Anders, due sedicenni gioiosi, morti troppo presto)

Viljar (fotogramma dal film: 22 luglio)
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    Uscire alle 24.00 da un ristorante, mentre fuori c’è ancora il sole.  C’è luce. Eppure sta per terminare la prima parte della notte e non c’è un filo di buio. Non capita tutti i giorni. Questa strana cosa sarebbe dovuta essere chiara già durante l’uscita in kayak: siamo tornati dall’escursione poco prima delle dieci di… Leggi tutto: Essere renne alle Svalbard è un mestiere davvero duro (parte prima)

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