Thor, dio del tuono e dei muscoli addominali (quarta ed ultima parte)


(foto non mia)

Abbiamo camminato per chilometri, quel giorno, dunque. Ventisei chilometri, fatti tutti su una distesa infinita di pietre scivolose ed aguzze. Instabili. Rumorose.

Il rumore delle pietre

A perdita d’occhio. Siamo andati avanti senza sosta.

Ad un certo punto abbiamo deciso di fermarci per il pranzo. Sarebbe stato il solito pranzo, fatto di buste e liofilizzati. Eravamo davvero affamati e dunque, pronti a tutto. Anche alle buste.

Nel frattempo, Thor aveva portato a termine la sua sessione di addominali. 

Mentre si camminava, ci ha raccontato una parte della sua vita, in particolare di una traversata a piedi dal carattere epico. che lo aveva visto come protagonista solo l’anno prima. 

Aveva camminato dalla Russia fino a casa sua, in Svezia. Si era letteralmente consumato in quell’impresa: per mesi, era dovuto restare a letto, per riprendersi (lui, un ventiseienne) dall’usura di ginocchia, caviglie e legamenti vari.

Un tipo davvero tosto.

Era stato dopo quest’impresa che aveva deciso di venire a cercare fortuna qui, alle Svalbard, un luogo che non rifiuta mai la sua accoglienza a nessuno.

Uno dei tanti lati affascinanti che queste isole possiedono. Sembrano respingenti, ma ti accolgono a braccia aperte.

Area pic nic

Nel frattempo, mentre ascoltavamo il suo racconto, ci preoccupavamo, di cercare un luogo in cui fosse possibile mettersi a sedere senza farsi troppo del male. Praticamente impossibile. Pietre aguzze ovunque. La stanchezza, alla fine, ha imposto le sue ragioni ed abbiamo appoggiato i nostri fondoschiena su quella superficie instabile e scivolosa, pur di riposare per un po’.

Ho tirato fuori i miei panini, quelli fatti da me, “rubacchiando” dal buffet del nostro hotel. Avvolti in morbidi tovaglioli. Divorati in un battibaleno. Dal termos ho versato dell’acqua bollente sul caffè liofilizzato e mi sono riscaldata.

Il pranzo di quel giorno è stato più silenzioso del solito. Eravamo sfiniti.

Stanchezza in noi, certo, ma anche meraviglia.

Intorno non si sentiva altro che il rumore del vento e, senza quello delle pietre smosse da ore dai nostri piedi, dominava una pace infinita.

L’azzurro del cielo

Il sole arrivava solo a tratti e sopra di noi c’era un cielo grigio, teso, compatto, che sembrava quasi deciso a schiantarsi sulle nostre teste, da un momento all’altro.

Stavamo camminando sul bordo dell’altipiano. Un altipiano tagliato di netto, quasi fosse stata un’accetta a crearlo. Se ci si avventurava sul bordo, si era colti dalla vertigine: sotto di noi, si vedeva Longyearbyen: quei puntini che si muovevano, laggiù, erano macchine, erano camion.

Longyearbyen, vista dall’alto

Alla nostra destra era perfettamente visibile – visto che ci trovavamo esattamente sopra – la pista di decollo e atterraggio dell’aeroporto.

Abbiamo visto arrivare e decollare un paio di aerei. Uno è sceso quasi all’improvviso, sbucando di botto dal banco di nuvole che stazionavano sulle montagne e, planando, è arrivato lento e deciso a toccare terra, con un suono di reattori a tutta manetta che giungeva a tratti nelle orecchie.

L’area vicina all’aeroporto

Il fiordo della città era incredibile da osservare, visto dall’alto: si vedeva chiaramente il punto in cui l’acqua di fusione del ghiacciaio, proprio quello che si trovava immediatamente alle nostre spalle, si univa all’azzurro sbiadito del mare, creando una mescolanza di colori pastello che non avevo mai visto prima.

Longyearbyen

Celeste polvere, beige, striature biancastre. Curve sinuose che si allungavano sotto i nostri occhi.

Longyearbyen

Sotto di noi, visibilissimo, il tratto di mare che avevamo attraversato in kayak il giorno (la sera?) del nostro arrivo. Ci siamo resi conto della fatica che ci aveva richiesto quella gita fatta a forza di remi.

Longyearbyen

Poco dopo abbiamo ripreso il cammino, in vista della discesa che ci attendeva.

Siamo arrivati vicino ad un altro “ometto”, il cumulo di pietre che serve come punto di riferimento per chi fa percorsi di trekking. Abbiamo guardato verso il basso, per studiare il cammino da fare. Sotto di noi una distesa infinita e ripida, fatta di pietre appuntite. Nessun sentiero tracciato, nessun appiglio, ma non c’era un altro modo per ritornare giù. Nessuna funivia o seggiovia. Solo la forza delle gambe ed un lavoro di equilibrio.

La fine della discesa: l’ometto è esattamente in cima alla montagna

Thor ci precedeva e scendeva sicuro, ma forse non si è reso conto della difficoltà con cui il resto del gruppo si è misurato, dietro di lui. 

Arrivavamo da una giornata pesante, da una camminata di molti chilometri su un fondo instabile. In poche parole: eravamo davvero stanchi e la stanchezza non è mai la condizione ideale per affrontare un percorso impegnativo, specie come quello.

Seicento metri di dislivello: quasi in verticale. Alcuni di noi erano spaventati, all’idea di cadere, di farsi male, in un luogo in cui anche solo essere soccorsi sarebbe potuto diventare un problema serio.

Se si guarda l’ultima foto, scattata all’arrivo, giù in fondo,  dal basso verso l’alto, l’ometto è solo un puntino, appena visibile, alla fine di una camminata davvero, davvero impegnativa, specie per chi tra noi non era affatto allenato per quel tipo di percorso. Mi colloco decisamente all’interno di questo ultimo gruppo.

Comunque, tutti abbiamo resistito e ce l’abbiamo fatta: siamo arrivati fino in fondo, barcollando, scivolando, tenendoci in equilibrio. Ventisei chilometri davvero duri.

Sono arrivata in albergo, del tutto priva di forze. Il residuo che avevo l’ho usato per farmi una doccia bollente ed infilarmi a letto. Senza cena.

Era stata davvero dura. Tra i due bisogni primari, ho scelto il sonno.

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