Thor, dio del tuono e dei muscoli addominali (terza parte)


Se non ti capita di soccombere prima, tutte le salite – in montagna , così come nella vita – prima o poi finiscono.

(primo grano gratuito di saggezza esistenziale)

Eravamo finalmente arrivati in cima all’altopiano. Avevamo lasciato alle spalle quella montagna di pietre scivolose su cui ci eravamo arrampicati fino ad un secondo prima.

Senza fiato.

Eravamo senza fiato. Per la fatica appena terminata e per il panorama che avevamo davanti. Per quel silenzio incredibile, interrotto, solo di tanto in tanto, dalle nostre voci.

In cima alla salita

Un vento gelido si insinuava sotto le sciarpe ed i cappelli, calati fin quasi all’altezza del naso. Il sole era coperto da una sottile coltre di nubi piatte e non mitigava in nessun modo la temperatura piuttosto rigida.

Era tutto meraviglioso e smisurato.

Il panorama, dall’altipiano

Da una parte avevamo la visione del ghiacciaio, che, da quell’altezza, era finalmente quasi del tutto visibile, dall’altra parte c’era il mare.

L’altipiano

Il colore celeste polvere del mare.

Sotto i nostri piedi una coltre soffice di terreno: la sola che avremmo incontrato in quella giornata.

Perché – ma non lo sapevamo ancora – la fatica più grande di quella giornata stava per incominciare.

Nel frattempo riposavamo. Ignari. 

Thor ne aveva approfittato per togliersi di dosso gli indumenti pesanti ed iniziare a fare flessioni, restando semplicemente in maglietta, bagnata del suo sudore. Noi ragazze eravamo troppo stanche, anche solo per ipotizzare pensieri libidinosi.

(al Nord non esiste il concetto di “maglietta della salute”, ha pensato, invece, con un moto di preoccupazione, la mamma che alberga perennemente in me)

Cominciavo a rinfrancarmi, perché ripensavo al gesto che lui, Thor, aveva fatto poco prima della partenza, per illustrarci il percorso: una linea diagonale (la salita appena terminata), una lunga linea orizzontale (l’altopiano che avevamo davanti) una linea diagonale (la discesa da fare per tornare giù alla fine). Questo significava che avevamo davanti una lunga camminata rilassante. 

Guardavo felice il soffice tappeto erboso che avevo davanti: lo avevo ampiamente guadagnato, quel riposo!

Dopo una decina di minuti di camminata in relax, l’altipiano ha cominciato a mostrare la sua vera natura: avevamo davanti a noi una distesa di pietre aguzze ed instabili.

Le pietre

Chilometri e chilometri di pietre, sulle quali si doveva camminare facendo molta attenzione a non scivolare. Facendo molta attenzione alle caviglie, che erano state sottoposte già ad una dura sollecitazione durante la salita.

Ho mandato mentalmente un saluto ed un abbraccio all’amica giramondo che – circa un mese prima – era stata consultata da me, a proposito delle calzature più adatte per fare dei trekking e che mi aveva dato una risposta secca, ma chiarissima:

“Devi comprare scarpe alte, che proteggano molto bene le caviglie e non badare a spese!”

(l’avevo ascoltata, per fortuna: mi erano sembrate davvero molto care, quelle scarpe, ma le avevo comprate, senza far storie, per mia fortuna)

Chilometri e chilometri, nella perenne ricerca di un equilibrio, che non arrivava mai.

(una perfetta metafora dell’esistenza, si direbbe, a posteriori, ma avrei volentieri fatto a meno, in quel momento, di quell’ulteriore grano di saggezza esistenziale)

Si faceva fatica ad alzare lo sguardo per osservare il panorama, perché ogni secondo di distrazione avrebbe potuto trascinarsi dietro una caduta, uno scivolone insidioso.

Pietre

Occhi bassi, dunque.

Eppure, intorno a noi il panorama era incredibile: sembrava tagliato con una gigantesca accetta. 

Il panorama

I soliti colori violacei delle Svalbard, mescolati di venature di giallo, sulle montagne intorno a noi. Sotto i nostri piedi quelle pietre, colorate dalla presenza dei licheni.

Il colore dei licheni

Il cielo, quel cielo basso del Nord, che sembra di continuo intenzionato a franarti in testa. E poi il mare, con le lingue dei ghiacciai, in lontananza, che entravano nell’acqua.

Una meraviglia continua. Silenzio assoluto. Solo i nostri piedi smuovevano le pietre e creavano un suono che non avevo mai sentito in precedenza.

Dopo un po’ siamo arrivati in prossimità di un piccolo monumento di pietre, su cui si trovava una data, insieme alla foto di una giovane donna sorridente.

Monumento dedicato alla ragazza uccisa dall’orso

Thor ci ha raccontato la sua storia. 

Qualche inverno prima due ragazze si erano avventurate da sole lassù, con  gli sci, durante i mesi del buio. Erano prive di fucile e di telefono satellitare.

Sono state aggredite da un orso, che ha afferrato ed ucciso una di loro, mentre l’altra, che era riuscita a fuggire, ha cercato di chiamare soccorsi con il telefono che aveva con sé e che per sua fortuna in quel momento funzionava.

Thor ha osservato che fuggire era stato un errore e che forse sarebbe bastato mantenere un po’ di sangue freddo e provare a lottare con l’orso, perché era un esemplare piuttosto piccolo (“ottanta chili circa”) e qualcosa si sarebbe potuto fare per contrastarlo.

(giorni dopo, al Museo delle Svalbard, davanti ad un orso impagliato, ho provato ad immaginare la scena e sono stata presa da un po’ di scetticismo, a dire il vero: non credo che sarei mai stata capace di lottare a mani nude contro un orso)

L’orso dentro il Museo delle Svalbard