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Cos’è che abbiamo scoperto riguardo agli orsi, frugando sul web, il giorno successivo alla gita a Pyramiden?
Abbiamo scoperto che il giorno prima del nostro arrivo un gruppo di turisti, identico al nostro, era stato costretto a restare sulla nave, dopo aver fatto, come noi, tre ore di nave da Longyearbyen, senza poter sbarcare, perché nell’unico edificio ancora abitato di Pyramiden – solo d’estate – era riuscito ad entrare un orso che, approfittando di una porta lasciata aperta da qualcuno troppo distratto, aveva razziato la cucina, per poi andarsene tranquillo e beato.
E i turisti, appena arrivati per visitare la città, sono stati costretti a tornare indietro, perché la situazione si era fatta decisamente troppo pericolosa per loro. E anche per le guide.
Un imprevisto incontro faccia a faccia con l’orso non è esattamente raccomandabile per un turista, come per chiunque altro, da quelle parti.
Ecco spiegato il nervosismo della nostra guida, quella mattina! Ecco chiariti gli avvertimenti continui a restare compatti, a non allontanarci da lui neanche un millimetro. Aveva delle ottime ragioni a metterci in guardia ogni tre secondi dagli orsi.
Gli orsi erano tra noi. Non solo le renne che ormai brucavano tranquille a mezzo metro da noi, senza che nessuno si sognasse più di fotografarle: gli orsi. Quelle enormi bestie che avrebbero potuto ridurci in brandelli in mezzo secondo.
La guida sapeva tutto questo.
Solo che si è dimenticata di raccontarci cosa diavolo fosse accaduto soltanto ventiquattro ore prima.
Dal ghiacciaio a poche centinaia di metri di distanza da noi, un bell’esemplare di orso aveva deciso di partire e di venire a fare un picnic a Piramyden. Forse si sentiva solo.
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Nonostante il nervosismo della guida, il tour della città fantasma è stato molto accurato: di ogni edificio abbiamo conosciuto la destinazione, chi lo avesse frequentato nel tempo, abbiamo visto scorrere sotto i nostri occhi il film di tante vite passate da quelle parti.
Vite dure, trascorse all’interno di condizioni di vita davvero difficili. In mezzo a pericoli di ogni sorta. Curiosità varie e storia. Piccoli pettegolezzi. Qualche aneddoto piccante, addirittura.
Uomini, donne, bambini sembravano animarsi davanti ai nostri occhi, nel racconto della nostra guida, che era stata anche testimone oculare degli eventi che ci narrava.
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Non amo affatto i luoghi abbandonati, i luoghi desolati, le città fantasma, che pure affascinano molti. Durante quel tour, specie quando siamo entrati negli edifici, (forse complice il fatto che si trattava di una città che era stata amministrata dall’Unione Sovietica) mi è continuamente venuta in mente la città di Pripyat, quella vicinissima a Chernobyl, altro luogo abbandonato in fretta e i furia dai suoi abitanti, anche se per motivi del tutto diversi.
L’effetto che questi luoghi hanno su di me è quello di generare istantaneamente malinconia. Ho visto tutto, ho ascoltato tutto il racconto, ma non ho avuto voglia di scattare foto.
Durante tutto il viaggio ne ho scattate centinaia, mentre non ho foto degli interni di Piramide. Troppa tristezza.
Le foto che vedete qui, non sono mie: sono state scattate dai miei compagni di viaggio.
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La desolazione e l’abbandono imperavano ovunque: nei gabbiani che avevano iniziato a nidificare sui davanzali delle case (credendoli veri e propri scogli), nei brandelli di intonaci che cadevano ovunque, all’interno degli edifici, nei pezzi di mosaici precipitati sui pavimenti, senza che nessuno li raccogliesse e li ricollocasse al loro posto.
Ero perplessa.
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Quello era un posto tenuto in vita solo per i turisti, ma che, quasi contemporaneamente, si sbriciolava sotto gli occhi di tutti, senza che si facesse nulla per fermare quello sfarinamento progressivo.
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Una contraddizione che mi è sembrata incredibile. Quasi provocatoria.
Mentre ascoltavo la guida che raccontava quelle storie dei minatori e delle loro famiglie, immaginavo e ricostruivo quei luoghi, li popolavo di persone, delle loro vite.
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La mensa, con i vassoi ancora al loro posto, la piscina, il centro culturale, tutto si riempiva di gente ai miei occhi e mi chiedevo di continuo che fine avessero fatto tutte quelle vite, ormai quasi certamente disperse.
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Vedevo uomini, donne, bambini, camminare su e giù per quei vialetti, entrare nelle case, buttarsi in piscina, ballare in discoteca. Vivere.
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Erano solo fantasmi, però. Lì la vita era del tutto scomparsa. Almeno, quella umana.
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Vedevo bene, invece, che la natura, a partire dagli orsi e dai gabbiani, stava rapidamente tornando a riprendersi tutto quanto.
Nel silenzio assoluto, la natura tornava padrona.
Su tutto, però, continuava a dominare l’inquietante testa di Lenin, silenziosa, seria, che guardava dall’alto il paesaggio, fino al ghiacciaio.
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Un emblema molto chiaro – una metafora – della infinita vanità del tutto. Specie a quelle latitudini. Specie se umana.
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