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È arrivata nel piazzale dell’albergo in perfetto orario, su un vecchio pulmino Volkswagen di un blu stinto, che, al momento della partenza per l’escursione, non ne voleva più sapere di ripartire.
Il mio cuore ansioso, solo a sentire quel motore che stentava ad avviarsi, ha avuto una stretta. Lo ammetto: sono una catastrofista. La mia tensione è arrivata subito a mille.
E se più tardi quel pulmino non fosse ripartito? E se ci fossimo trovati da soli, di notte (“ma che dici, QUALE notte?”) (“vabbè, ci siamo capiti!”) da soli, di notte, dunque, persi in una landa desolata, a mille miglia dal resto del mondo?
Solo per colpa di un motorino di avviamento capriccioso.
Saremmo probabilmente diventati una ricca merenda/dinner per gli orsi polari, che – a decine – si sarebbero dati appuntamento per banchettare felici con noi tra quelle Purple Mountains desolate, senza nemmeno un albero su cui arrampicarsi?
Comunque. Ho deciso di tenere a bada i demoni dell’ansia e mi sono predisposta al meglio, ad un’escursione che prometteva di essere davvero interessante. Insieme alla nostra specialissima guida.
Appena l’ho vista arrivare sul piazzale davanti all’albergo, ho trovato per lei il nomignolo “l’Amazzone”.
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Ne aveva tutta l’aria, a dire il vero.
Alta, tosta, coriacea, un bel sorriso accogliente, capelli sale e pepe che una volta erano stati biondi, occhi colore celeste chiarissimo, un’età indefinibile, compresa tra cinquanta e settanta, con l’aria tipica delle persone che hanno molto vissuto, nella loro vita.
(beate loro!)
Pantaloni mimetici, scarponi militari, maglione nordico extra-cool, fucile, pistola, telefono satellitare (ça va sans dire) ed un grande senso dell’umorismo.
La mappa delle Svalbard tatuata su un braccio. Se aveva un luogo da indicarci, tirava su la manica e puntava il suo dito. Semplice, no?
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Una meraviglia di donna.
(quella che avrei tanto voluto essere nella vita, se nel tempo non mi fossi trasformata nella nerd ansiosa che sono tuttora)
Ottima divulgatrice, chiara nelle sue spiegazioni, precisa nelle indicazioni da darci di volta in volta.
Una che – ora lo so con certezza – sarebbe anche capace di uccidere un orso polare a pugni, se solo volesse.
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Una donna con una conoscenza profonda di ogni più piccolo granello di quei posti tanto particolari.
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Appena scesi dal pulmino, ha distribuito tra tutti noi i viveri per tutta la giornata: termos con acqua calda, caffè liofilizzato, succo di mirtillo, biscotti ipercalorici, l’occorrente per il pranzo, così da alleggerire il suo zaino già imponente.
Nel frattempo, strada facendo, mentre guidava quel pulmino mezzo scassato, aveva iniziato a raccontarci molte cose sulle isole Svalbard.
Ci ha descritto le durissime condizioni di vita dei minatori alle Svalbard. Esistenze al limite della sopravvivenza.
In effetti, ci voleva poco a capirlo.
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Bastava dare un’occhiata alla collocazione dei siti di estrazione, incastrati sui fianchi di montagne per le quali la parola “sentiero” una perfetta sconosciuta.
Ci ha spiegato perché in queste isole la legge norvegese vieta ai suoi abitanti di nascere e di morire lì.
Il permafrost che compone il terreno superficiale non consente ai corpi di decomporsi, dunque non ci possono essere cimiteri in cui interrare le persone.
Non appena si diventa troppo anziani o ci si ammala gravemente, ci si deve trasferire sulla terraferma. In Norvegia.
Sia per morire, che per nascere: le puerpere, a poche settimane dal parto vanno dritte dritte a Tromsø, dove daranno alla luce i loro figli, per poi fare ritorno a Longyearbyen.
Mentre ci dirigevamo verso il punto di partenza della nostra lunga escursione, dai finestrini abbiamo osservato l’unico, minuscolo, agglomerato di croci visibile da quelle parti.
(si trattava di minatori? di persone morte di Febbre Spagnola all’inizio del Novecento?- gli studiosi si azzuffano ancora oggi su una delle due ipotesi)
Una volta arrivati nei pressi di un ampio spiazzo, abbiamo preso i nostri zaini, ci siamo messi in fila indiana, quindi abbiamo ascoltato il predicozzo sulle cose da fare e quelle da non fare assolutamente, che ci sarebbe divenuto così familiare nei giorni successivi.
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(“non vi allontanate da soli per nessun motivo, restate appiccicati al gruppo!”)
Ad un certo punto della nostra escursione, l’Amazzone ci ha anche raccontato la storia della breve, intensa e sventurata vita delle renne delle Svalbard.
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Ma questa è un’altra storia.
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